La Storia di Marina

Estate 2009, la scoperta

Era l’ultimo giorno d’asilo e, da maestra, salutavo i bimbi felice. Solo un’ecografia mi separava dalle meritate vacanze. Il risultato si rivelò subito sospetto: mi dovevo operare. Tra la paura della malattia che mi stringeva la gola e momenti in cui mi sentivo immune, decisi di andare qualche giorno prima dell’intervento nei miei luoghi d’infanzia cercando di non pensarci, ne parlai con pochi, fingevo che tutto fosse come prima.

Barbablù, così chiamai quel nodulo cattivello, perché non volevo dire cancro…

La mattina che cambiò la mia vita avevo solo 44 anni. Arrivai in ospedale abbronzata, in forma apparentemente. Dovevo togliere Barbablù, così chiamai quel nodulo cattivello, perché non volevo dire cancro. L’intervento comportò anche lo scavo ascellare e mi dissero subito che mi sarei dovuta sottoporre a chemio. Uscita dall’ospedale facevo tutto come prima … in realtà vivevo una vita parallela su Internet a cercare notizie, a confrontarmi con chi condivideva con me il lessico del cancro sempre più familiare; alcuni blog e forum mi hanno enormemente aiutato… hanno colmato il senso di solitudine, lenito paure, dato preziosi consigli. Già, la paura dilagava sempre più, i pensieri erano cambiati, il corpo lo sentivo diverso, non tornai al lavoro, guardavo gli altri vivere …ero congelata in attesa dell’istologico e della visita oncologica. L’istologico arrivò, poteva andare meglio, ma in quanto a medici non avrei potuto chiedere altro, tutto il “mio” ospedale (Ospedale San Paolo, Milano) era un fantastico supporter. Intanto quel settembre 2009 non finiva mai tra esami di stadiazione e tentativi di “arrangiare” la mia nuova vita.

Gli aiuti, le fonti, le amiche

Mi rivolsi subito alla Onlus Attive come prima. Ada Burrone, la fondatrice, e i suoi eccezionali collaboratori, le altre donne mi accompagnarono nel mio percorso. Ero spaventata, mi aspettavano 16 chemio, avrei perso i capelli, tutti avrebbero capito. Decisi subito tre cose: che non volevo la parrucca, che mi sarei curata come si fa con tutte le malattie e che ne avrei parlato apertamente. Anche se, su questo ultimo punto, a posteriori, ne parlerei meno apertamente, non perché non sia giusto, anzi, ma più che altro per difendermi in quel momento di fragilità emotiva.

Inizio del percorso di cura

Il tempo della chemio volò faticoso ma non terribile. Stavo bene, era un periodo fecondo di pensieri, attività, malgrado la fatica. La prima chemio: la stanza invasa dal sole di ottobre, il mio “magone” come quando ero bambina… il pomeriggio mi sforzai di andare a spedire il certificato di malattia pur terrorizzata, temevo una metamorfosi nel tragitto. La sera vomitai ma poi stetti sempre bene… sono stata davvero fortunata… il mio corpo reagiva bene. A maggio finii anche la radioterapia, ero alla fine di una lunga corsa per chiudere fuori dalla porta Barbablù. Sempre con il pensiero che potesse tornare da un momento all’altro, ma stavo bene e ritornai al lavoro. Non più educatrice ma, momentaneamente (m’illudevo), segretaria… faticoso, tutto da imparare, ma che bello. Andavo spesso in ospedale per i controlli, ingoiavo tutte le sere (per 5 anni poi divenuti 10) una pastiglia e provavo a riprendermi la vita.

Linfedema, la velenosissima ciliegina sopra la torta

Poco dopo la mano iniziò a gonfiarsi, era l’anticamera del linfedema complicanza spesso legata all’intervento che causa edema, gonfiore e molta sofferenza. Per risolvere, dovetti sottopormi ad autotrapianto linfonodale e a successiva fisioterapia intensiva, bendaggio costante, con grandi disagi: cucinare, lavarsi, vestirsi era difficoltoso, l’estate era diventata un supplizio. Il linfedema è stato la velenosissima ciliegina, il continuo promemoria della malattia, come dice una delle mie fisioterapiste, che ben sa la portata, anche psicologica, di tale patologia. E così se, paradossalmente, alle terapie oncologiche avevo retto bene, ora di nuovo tristezza e scoraggiamento mi attanagliavano. Finalmente, dopo ben 17 mesi di fasciature giorno e notte, passai alla guaina elastica: bella, fiammante, di un bellissimo color viola. Basta fare la mummia, il braccio è quasi come l’altro, è una pacchia, una gioia.  Ritorna il buon umore, la voglia di fare, posso cucinare, togliere la guaina per andare in piscina, per lavarmi semplicemente… o per provare un vestito. Se riguardo agli ultimi anni vedo un continuo faticoso arrancare tra controlli, cure, fisioterapia e problemi di ordinaria amministrazione, sono come svuotata ma poi una serie di felici coincidenze mi avvicina alle Pink Amazons Dragon Boat.

L’incontro con le Pink Amazons Dragon Boat

A maggio incontro Antonella ed Annalisa Pink Amazons, a ottobre conosco a Chianciano Ivana, compagna di malattia che per anni ha fatto dragon boat a Roma, m’incoraggiano, ci penso e grazie a loro, a novembre inizio a pagaiare e non mi fermo più. Che dire, è stata una bellissima scoperta, sul piano umano poter condividere con altre donne, fare qualcosa insieme è un balsamo potentissimo, mi riappacifica con il mio corpo non più solo malato e appesantito dalle cure, ma nuovamente tempio sacro così come lo sentivo sul Cammino di Santiago. Pagaiare fa bene al mio braccio, soprattutto al mio umore, mi sprona a impegnarmi, a credere nelle mie possibilità, a superare metaforicamente le mie difficoltà imparando ad accettare i miei limiti. Ci sono tanti modi per fare qualcosa per se stessi, l’importante è scegliere di fare qualcosa; per me ci è voluto un po’ ma è andata così. Che altro posso dire ora, avvezza a giocare con le parole e le rime come facevo con i bambini, chiedo che il bastone della mia vecchiaia sia una pagaia anche se non sempre sono assidua nell’attività ed anche se tante volte preferirei attività molto più leggere…dal punto croce al bridge…ma quando l’allenamento è finito, la fatica è smorzata io sono felice magari stanca ma di una stanchezza benevola, appagante.